La Germania con qualche mese di ritardo rispetto al programma precedentemente annunciato, esce dal nucleare. Entro aprile o comunque a breve saranno chiuse le ultime tre centrali in esercizio sul suolo germanico.
Per una potenza industriale di tale entità il passo non è stato facile, ed anche ora si registrano le perplessità della grande industria tedesca che vorrebbe maggiore cautela e tempi più lunghi per riflettere sull’argomento.
Ma ormai il dado è tratto.
Cosa ha spinto la Germania a questo fatidico passo?
Una delle maggiori motivazioni è rappresentata dal tema dello smaltimento delle scorie ad alta attività, problema che interessa in realtà anche tutte le altre potenze industriali, europee e non, che continuano e continueranno ad utilizzare l’atomo per la produzione di energia elettrica.
La Germania non si è ancora ripresa dal disastro della Halle, cioè da quel tentativo di smaltire le scorie in profondità che ha creato notevoli disastri in Baviera, con inquinamento di falde acquifere in un enorme bacino geografico susseguente al deterioramento dei contenitori e alla diffusione causata da una inidoneità geologica del sito prescelto, una obsoleta miniera di salgemma.
Pesano poi sulla bilancia del rapporto costo/benefici correlato a questa tecnologia produttiva, le enormi spese relative alla costruzione delle centrali e, in prospettiva, alla loro dismissione e allo smaltimento in sicurezza delle scorie radioattive.
Non ultimo pesa il rischio connesso al funzionamento delle centrali nucleari, rischio non sempre prevedibile e non del tutto contenibile, come hanno dimostrato gli storici eventi di Chernobyl e, il più recente, di Fukushima. L’imprevedibilità della natura, gli errori umani, i difetti di costruzione e di gestione rappresentano un mix di fattori di rischio che rende ormai inaccettabile l’idea della prosecuzione di questa tecnologia, dal momento che le conseguenze di eventuali disastri si sono dimostrate incontenibili, pericolose per la salute e l’ambiente, onerosissime dal punto di vista economico e instabili nel tempo.
La produzione di energia elettrica da nucleare si avvia malinconicamente sul viale del tramonto; soltanto la perdurante fede di chi ancora si dedica a questo settore scientifico-industriale sostiene l’accanimento intorno a questa idea, che per molti aspetti diventa ideologia.
Di tanto in tanto si concretizza qualche endorsement, come l’inclusione dell’energia nucleare nella tassonomia stilata dalla UE analogamente alle energie rinnovabili, o la rassicurante notizia della prima realizzazione di un deposito geologico di profondità in quel della Finlandia.
Ma si tratta di fuochi di paglia, di tentativi che non reggono allo scontro con la dura realtà del nucleare e dei problemi ad esso connessi.
Il nucleare viene sbandierato a livello europeo, e in particolare da alcuni paesi fortemente propensi al prosieguo di questa tecnologia, per meri interessi economici, come la Francia, angosciata produttrice di reattori nucleari da vendere su un mercato che si va progressivamente restringendo, o la Finlandia, forte del risultato di prestigio ottenuto con la costruzione del primo sito di smaltimento in profondità prossimo all’inaugurazione, o ancora qualche paese dell’Est Europa, dove l’accoglimento di centrali nucleari sotto la spinta interessata dei produttori di reattori nucleari rappresenta un fattore di incremento economico per attenuare quel gap che li separa sempre più da altri paesi di antica e comprovata attitudine industriale o dotati di ricchezze naturali o ambientali in grado di smuovere una economia ad essi preclusa.
In Italia si assiste a queste oscillazioni di tendenza e ci si alterna da posizioni garantiste dell’ambiente, che negano la possibilità di un ritorno al nucleare, a posizioni avventatamente aperturiste, in una confusione tra concetti improponibili di centrali piccole e sicure a nuove tecnologie nucleari dai contorni indefiniti, fino a spingersi alla fede indiscutibile sul nucleare da fusione, vera chimera della fisica moderna.
La Germania ha come obbiettivo la produzione di energia elettrica da un mix fra energia stabile fornita da gas e da un enorme contributo fornito da energie rinnovabili, indicato pari all’80% del fabbisogno nazionale nel 2030.
Soltanto la Francia persiste ostinatamente sul programma nucleare iniziato da De Gaulle ed è ora costretta a sostenerlo ancora, dal momento che ha puntato quasi esclusivamente su questa tecnologia e poco ha investito sulle energie rinnovabili. Il governo francese, come in parte ha fatto finora quello tedesco, è stato costretto a prolungare la vita delle sue vecchie centrali. Ma tutti i nodi vengono al pettine e di recente 30 dei suoi 54 reattori nucleari sono fermi, ‘per motivazioni varie dalla manutenzione, ai danni strutturali, alla senescenza.
Il futuro nucleare della Francia si scontrerà frontalmente con il problema della gestione dei rifiuti radioattivi ad alta attività. Se per l’Italia è un problema smaltire 17.000 mc di rifiuti radioattivo ad alta attività, è anche difficile immaginare come la Francia potrà affrontare il problema, con l’enorme quantità di scorie da gestire. Si parla di un impegno economico oscillante fra i 350 miliardi e i 900 miliardi di euro. Oltre che non è ancora disponibile una soluzione tecnica alternativa al deposito geologico di profondità, oggi in fase di realizzazione esclusivamente in Finlandia grazie al fatto che la fascia settentrionale dell’Europa, limitatamente al nostro continente, è l’unica che possiede un mantello roccioso con caratteristiche geologiche di stabilità e impermeabilità tali da renderlo idoneo alla realizzazione del deposito per le scorie ad alta attività, non si tiene adeguatamente conto del fatto che la continua produzione di scorie radioattive conduce ad una situazione di ingestibilità ingravescente.
Già oggi l’Europa deve smaltire 6,6 milioni di mc di materiale radioattivo, quantità quasi inimmaginabili e potenzialmente ingestibili con le tecnologie oggi disponibili. Pensare al mantenimento o alla implementazione della produzione di energia elettrica da nucleare rappresenta una sfida impossibile. A fronte di questa incomprensibile ostinazione, appare poco credibile se non comica la crociata europea contro la CO2. Una lotta basata su una visione limitata e fuori dalla realtà di quanto accade nel resto del mondo. I continenti e le nazioni fortemente industrializzate non hanno nessuna voglia di combattere il fenomeno e continueranno ad inquinare come hanno fatto fino ad oggi. Anzi potrebbe accadere anche di peggio: enormi territori come l’India, di recente protesa con successo all’industrializzazione più deregolata, o l’Africa, sempre più “colonizzata” silenziosamente dall’avanzata cinese, o altri paesi asiatici poco propensi al benessere universale, contribuiranno a peggiorare le cose con lo sviluppo di tecnologie per noi obsolete, fortemente legate all’uso degli idrocarburi, al fine di fornire a basso costo quei prodotti che l’Europa non ha più voglia di produrre, ma che ambisce acquistare sempre con maggiore ingordigia.
Un’Europa, quindi, sensibilissima al problema ambientale, contribuisce ottusamente a crearne un altro molto più grave. Se teoricamente l’abbattimento della CO2 è possibile riducendo la utilizzazione dei combustibili tradizionali, risulta incomprensibile come non abbia la stessa sensibilità per comprendere la inadeguatezza attuale a sostenere l’impatto dei rifiuti radioattivi destinati ad aumentare vertiginosamente.
Due pesi e due misure. Facili e trite idee complottiste potrebbero indurre ad una interpretazione dei fatti europei come conseguenza di chissà quali accordi economici e quali forme di corruzione tesi a smantellare la tecnologia storica europea, leader incontrastata della meccanica, ora protesa, unica al mondo, alla elettrificazione talebana dell’automotive. Tutto a favore della Cina, avviata da tempo alla produzione di componenti elettriche, in primis le batterie, indispensabili per questo epocale salto tecnologico.
Brava l’Europa, quindi, a capo di una crociata che non vede altri adepti nel mondo e che in maniera inquietante delinea un comportamento oscillante fra il masochismo, l’ideologia strumentalizzata e ottusa, le ombre di ingerenze economiche interessate a noi come mercato e propense a fornirci materiale per sostenere le nostre belle idee pseudoambientaliste determinando con questo, ed anzi implementando, quell’inquinamento al quale solo noi vogliamo porre rimedio.